I buchi neri sono tra gli oggetti cosmici più affascinanti e misteriosi. Furono ipotizzati per la prima volta nel 1916, un anno dopo la pubblicazione da parte di Albert Einstein della sua teoria della relatività generale, quando l’astronomo tedesco Karl Schwarzschild presentò la prima soluzione esatta delle equazioni della teoria, note come “equazioni di Einstein”: la soluzione prevedeva anche l’esistenza di oggetti il cui campo gravitazionale è così intenso da non permettere né alla materia né alla luce di sfuggire, una volta superato un confine detto “orizzonte degli eventi” (il termine “buco nero” sarebbe stato coniato diversi decenni più tardi). Per molti anni i buchi neri sono stati considerati dalla maggior parte degli scienziati come una semplice curiosità matematica, priva di realtà astrofisica. Tuttavia, a partire dalla seconda metà dello scorso secolo, i progressi teorici e osservativi dell’astrofisica e della cosmologia hanno accreditato sempre di più l’ipotesi che i buchi neri possano essere oggetti reali, sia come stadi finali dell’evoluzione di stelle massicce, sia nella veste di enormi “attrattori” al centro di molte galassie (in quest’ultimo caso si parla di buchi neri “supermassicci”).
E nell’ultimo decennio sono finalmente arrivate clamorose conferme osservative: la rilevazione di onde gravitazionali prodotte in processi di fusione tra buchi neri stellari, osservate con continuità dal 2015 dagli esperimenti LIGO e Virgo, e le spettacolari immagini delle “ombre” dei buchi neri supermassicci al centro delle galassie M87 e della nostra Via Lattea, realizzate dalla collaborazione Event Horizon Telescope (con importanti contributi di ricercatrici e ricercatori dell’INFN) rispettivamente nel 2019 e nel 2022. La possibilità di osservare onde gravitazionali, ha aperto una vera e propria nuova finestra osservativa sui buchi neri, dal momento che gli eventi di coalescenza tra buchi neri astrofisici emettono soltanto segnali gravitazionali, mentre non sono osservabili con telescopi elettromagnetici.
Gli osservatori di onde gravitazionali di prossima generazione, come l’Einstein Telescope, permetteranno di avere accesso a una quantità enorme di eventi di questo tipo, con la possibilità di ricostruire l’intera popolazione dei buchi neri nella storia dell’universo.
La teoria della relatività generale, pubblicata da Albert Einstein nel 1915, è uno dei capisaldi della fisica moderna. È una teoria che descrive le interazioni gravitazionali, generalizzando e superando la precedente teoria di Isaac Newton, elaborata quasi tre secoli prima.
Il modello standard della cosmologia, chiamato anche modello Lambda-CDM, è il più semplice quadro teorico in grado di fornire una buona descrizione di tutti i fenomeni cosmologici osservati con soli 6 parametri liberi.
Quella del Big Bang è la teoria scientifica sull’origine del cosmo attualmente più accreditata: postula che il nostro universo abbia avuto origine circa 13,8 miliardi di anni fa da uno stato estremamente caldo e denso, e che da allora si sia espanso in modo sostanzialmente continuo.
L’universo è costantemente attraversato da particelle elementari e subatomiche, che viaggiano nello lo spazio ad altissima velocità. Molte di queste arrivano sulla Terra, portando con sé informazioni molto preziose sui fenomeni astrofisici che le hanno prodotte.
Le onde gravitazionali sono increspature dello spaziotempo prodotte da grandi masse in moto accelerato nel corso di violenti fenomeni astrofisici, come per esempio eventi di fusione tra coppie di buchi neri o stelle di neutroni.
Il 17 agosto 2017, una coalescenza di stelle di neutroni avvenuta nella galassia NGC 4993 (a circa 130 milioni di anni luce da noi) è stata osservata contemporaneamente dagli osservatori di onde gravitazionali LIGO e Virgo e da numerosi telescopi elettromagnetici (dalle onde radio fino agli energetici raggi gamma) in tutto il mondo.
La materia oscura è una forma di materia invisibile ai telescopi, che non emette radiazione elettromagnetica e la cui (presunta) esistenza è oggi rilevabile soltanto in modo indiretto, attraverso i suoi effetti gravitazionali.
Le osservazioni sulle velocità delle galassie raccolte da Edwin Hubble, negli anni Venti dello scorso secolo, hanno dimostrato che il nostro universo non è statico ma in espansione, fornendo una delle prime prove solide a favore della teoria del big bang.