Intervista a Leonard Susskind

21 Maggio 2025

Intervista a Leonard Susskind, considerato uno dei padri della teoria delle stringhe e insignito dall’INFN della Medaglia Galileo Galilei 2025 per il suo fondamentale contributo alle sfide che i buchi neri pongono alla natura classica e quantistica della gravità

Cominciamo dalle basi: che cos’è la teoria delle stringhe?

Oggi, la teoria delle stringhe è considerata una teoria sulla gravità e sugli oggetti più fondamentali alle più piccole distanze possibili. Ma non è nata così; è nata come teoria delle particelle subnucleari, le particelle che compongono il nucleo: protoni, neutroni, e anche mesoni. Nessuno dubitava della loro esistenza, si trattava di oggetti sperimentali ben noti. Ciò che li rendeva interessanti era la loro diversità dagli elettroni. Un elettrone è una particella puntiforme, impossibile da far ruotare come un pallone da calcio o una palla da basket. Un pallone da calcio o una palla da basket, infatti, ha una certa dimensione, ed è ragionevole pensare che ruoti attorno a un asse, e che ruotando, accresca la sua energia cinetica. Ora, secondo E=mc², la famosa formula di Einstein, quando aumenta l’energia, aumenta anche un po’ la massa. E sapevamo sperimentalmente che i protoni e i neutroni e i mesoni erano oggetti che potevano essere fatti ruotare, potevano essere fatti vibrare come un oggetto elastico. Colpendo ognuna di queste particelle, i cosiddetti adroni (le particelle all’interno del nucleo), se ne può provocare la rotazione e dunque aumentarne la massa e l’energia: in questo modo si produce un’intera famiglia di stati quantistici eccitati. Ci è voluto un po’ di tempo prima che si capisse che gli stati eccitati si comportavano come stringhe, elastici di gomma fatti vibrare.
Intorno al 1969, io, Yōichirō Nambu e Holger Nielsen, in modo del tutto indipendente, ci siamo resi conto che i protoni e i neutroni si comportavano come delle stringhe elastiche. Non sapevamo perché, quindi ci siamo messi a scrivere una teoria matematica delle stringhe elastiche vibranti e di ciò che sarebbe accaduto se due di esse si fossero scontrate. Abbiamo inventato e sviluppato così la teoria oggi nota come teoria delle stringhe. Essa riproduceva molto bene ciò che si sapeva degli adroni e, nelle intenzioni, non aveva a che fare con la gravità. Ci è voluto ancora un po’ di tempo, un paio d’anni, perché ci si rendesse conto che questa teoria delle stringhe conteneva quello che all’epoca era considerato un difetto: prevedeva particelle che non erano tra gli adroni, particelle senza massa come il fotone, ma anche un oggetto che si comportava in modo molto simile a un gravitone. Furono alcune persone molto brillanti, John Schwarz e Joël Scherk da un lato, e Tamiaki Yoneya dall’altro, e anche io in misura limitata, ad avanzare l’idea che questa potesse essere una teoria della gravità. Suggerirono che prevedesse i gravitoni e che le stringhe fossero soggette a forze gravitazionali. Bastava immaginare che queste stringhe fossero 19 ordini di grandezza più piccole degli adroni e tutto d’un tratto si aveva una teoria della gravità.
Nel corso degli anni è evoluta in una serie di teorie con strutture matematiche molto sofisticate che, francamente, vanno ben oltre le mie capacità. Grazie al lavoro di Edward Witten e di altre persone, si è arrivati a una teoria altamente sistematica e rigorosa, chiamata teoria delle stringhe supersimmetrica. Una teoria talmente simmetrica, matematicamente perfetta, che non descrive la natura, la fisica, il mondo reale delle particelle elementari come li conosciamo. Ha qualche relazione con esse? Certamente descrive gli adroni, ma non risponde alle domande fondamentali sulla gravità, gli elettroni e l’intero Modello Standard. Dopo 56 anni, stiamo ancora cercando di capire quale sia la relazione dettagliata della teoria delle stringhe con le particelle elementari.

Come si è passati dalla descrizione del comportamento degli adroni, quindi dall’infinitamente piccolo, alla vastità del paesaggio cosmico[1]?

Cercando di rispondere a un’altra serie di domande. C’era infatti un enorme rompicapo riguardante il cosiddetto fine-tuning, e in particolare la costante cosmologica, ovvero l’energia del vuoto. La teoria quantistica dei campi attribuiva all’energia del vuoto un valore enormemente grande. Ma in un primo momento gran parte di noi non credeva che esistesse, che equivale a dire che le attribuivamo un valore numerico pari a zero. La costante cosmologica però non è zero, è molto vicina allo zero, ma non è zero, e noi non avevamo idea del perché. Era un enigma. Perché esisteva una costante cosmologica? Perché non era zero? E all’opposto, perché non era grande? Perché era così piccola? Le risposte lasciavano me e molti colleghi perplessi.
Fu intorno al 1987 che Steven Weinberg propose si trattasse dell’idea antropica. Egli immaginava un universo grandissimo (che oggi chiamiamo multiverso), con regioni di spazio più piccole, ciascuna con un diverso valore della costante cosmologica. Non affrontò il motivo per cui possono esserci così tanti valori diversi, ma suggerì che nella nostra regione di spazio fosse in gioco l’idea antropica, ovvero che fosse regolata da costanti che le permettono di essere abitata da creature viventi, come noi, in grado di interrogarsi sulla sua natura. Era un’idea bizzarra e divertente, che sollevava un’altra domanda: se la costante cosmologica è piccola a causa del principio antropico, che cosa succederebbe se fosse più grande? Se fosse più grande, si vorrebbe poter sostenere che la vita non potrebbe esistere. Weinberg trovò quindi un motivo per cui una costante cosmologica più grande distruggerebbe la possibilità della vita: essa causerebbe un’espansione così rapida dell’universo che oggetti come le galassie, le strutture stellari, non sarebbero in grado di formarsi e, se così fosse, la vita sarebbe impossibile. Questo è il principio antropico, e Weinberg in verità credeva che si sarebbe rivelato sbagliato. Soltanto una prova sperimentale avrebbe potuto confermarlo: la misura di una costante cosmologica molto piccola. E una costante cosmologica molto piccola è esattamente ciò che è stato riscontrato nella successiva serie di esperimenti. Perciò, all’improvviso, l’idea antropica è diventata una possibilità reale, e sono emerse due nuove domande: l’universo è davvero molto più grande della parte che possiamo vedere? Può davvero contenere molti ambienti diversi, una frazione molto piccola dei quali potrebbe essere come il nostro?
La successiva esplorazione del fondo cosmico a microonde ha confermato che l’universo è davvero molto più grande della parte che possiamo vedere. Addirittura, per concordare con la cosmologia osservativa, l’universo dovrebbe essere almeno di un fattore 10 di raggio più ampio di quello che possiamo vedere, e almeno mille volte più grande in volume. La porzione che possiamo vedere è delimitata da un orizzonte, ed è chiaro che ci sono cose al di fuori dell’orizzonte. E questo, tra l’altro, è anche strettamente legato alle idee inflazionistiche, secondo cui l’universo si è gonfiato così tanto da essere almeno mille volte più grande di quanto osservabile, fino a 10 alla 10 alla 10 alla 10 volte più grande.
Quanto alla risposta alla seconda domanda, quella sui molti ambienti tra cui uno con una costante cosmologica molto piccola, è arrivata dalla teoria delle stringhe. La teoria delle stringhe infatti non è una cosa sola. Si può dire che esistono molte teorie delle stringhe, o meglio, si può dire che esistono molte soluzioni delle equazioni della teoria delle stringhe. E queste diverse soluzioni hanno tutte valori diversi della costante cosmologica, valori diversi della costante di struttura fine, tipi diversi di particelle elementari. Quante soluzioni ci sono? Un numero enorme. Potrebbe essere 10500 o 101000 o 101000000. Qualcuno ha stimato, sulla base della matematica, che si tratterebbe di almeno 10500 tipi diversi di ambienti, 10500 possibilità che costituiscono il cosiddetto paesaggio cosmico.
Quindi la teoria delle stringhe ci stava dicendo che ci sono molte possibilità, la cosmologia osservativa che l’universo è molto più grande di quanto possiamo vedere, e poi c’era questa piccola costante cosmologica che nessuno era riuscito a spiegare. Quando si mettono insieme queste idee cosa viene fuori? Che l’universo è molto grande, con molti ambienti diversi, e che noi viviamo negli unici tipi di ambiente possibili, cioè quelli con una costante cosmologica abbastanza piccola da permettere la formazione di galassie. È solo una questione di fortuna? No, semplicemente la vita può formarsi solo in regioni simili alla nostra. E questo è il punto a cui siamo ora: dove, di fatto, la migliore e praticamente unica spiegazione di ciò che vediamo, così come della costante cosmologica, è questo enorme paesaggio, l’universo pieno di possibilità diverse. A molte persone non piace questa idea, ma credimi, non hanno un sostituto.

A proposito di scontri di idee, c’è uno scontro durato 28 anni: La guerra dei buchi neri. Può raccontarci come ha reso il mondo “sicuro per la meccanica quantistica”[2]?

Prima di arrivare allo scontro torniamo alle origini, al 1916, l’anno di pubblicazione della teoria della relatività generale di Einstein. Rapidamente accettata come la giusta spiegazione della gravità, questa teoria fornì anche la chiave d’accesso ai buchi neri. Non fu Einstein a scoprirli – anzi ne negava l’esistenza e addirittura vi si opponeva – ma fu lui, nell’ambito della relatività generale, a formulare le equazioni che li avrebbero descritti. Le loro soluzioni furono individuate, poco dopo, dall’astronomo, fisico e matematico Karl Schwarzschild che, senza attribuirvi alcun particolare significato, le chiamò proprio “soluzioni”. Solo col tempo si capì, in parte grazie a Oppenheimer, che le stelle più grandi di una certa dimensione, una volta esaurito il carburante, collassano sotto il proprio peso e diventano queste soluzioni di Schwarzschild che oggi chiamiamo buchi neri.
All’inizio c’era molta confusione. Non era chiaro che i buchi neri avessero un orizzonte – fu David Finkelstein a capirlo – e ci volle un intero gruppo di persone (di cui io non facevo parte) per costruire la teoria classica dei buchi neri. Ma poi, un’intuizione sorprendente è arrivata da Jacob Bekenstein. Egli capì che i buchi neri sono dotati di entropia, ovvero che le informazioni che cadono al loro interno vi rimangono nascoste, in forma di così tante minuscole particelle che non è possibile tenerne traccia. E a ciò aggiunse che l’entropia di un buco nero è quantitativamente pari all’area del suo orizzonte.
L’idea fu rifiutata da Stephen Hawking, che ben presto fu costretto a ricredersi. Ragionando infatti sulla questione, Hawking vi aggiunse un nuovo tassello: comprese che i buchi neri hanno proprietà termiche, si comportano come oggetti caldi (in realtà sono molto, molto freddi, ma comunque non raggiungono lo zero). E questa caratteristica, la temperatura, combinata alla massa (che i buchi neri hanno), per le leggi della termodinamica, determina l’entropia; in altre parole, Bekenstein aveva ragione. Ora, sempre secondo le leggi della termodinamica e della meccanica quantistica, tutto ciò che ha temperatura irradia energia nel vuoto, finché non evapora; per cui anche i buchi neri, in un tempo molto lungo, finiranno per evaporare.
Maturata questa consapevolezza, Hawking pose, pubblicamente, una domanda cruciale: che fine fa l’informazione nascosta in un buco nero, se questo alla fine scompare? E fornì anche una risposta tanto semplice quanto controversa: l’informazione scompare dal nostro universo, si perde insieme al buco nero. Una proposta in aperta violazione delle leggi della meccanica quantistica, che avrebbe portato a ogni sorta di fatti termodinamici inaccettabili. Non lo fece ingenuamente, sapeva cosa avrebbe implicato, semplicemente sosteneva che, tenendo conto della gravità, le leggi della meccanica quantistica non potessero essere corrette.
Il mondo della fisica si divise allora in due gruppi: c’erano gli esperti di relatività generale, che erano convinti che Hawking avesse ragione e che la meccanica quantistica andasse cambiata, e c’erano i teorici dei campi quantistici e i fisici delle particelle, che non avevano alcun interesse per il problema. Soltanto in due ci opponemmo con forza a Hawking: Gerard ‘t Hooft e io. “Non può essere giusto”, continuavamo a ripetere a chiunque; e nel mio caso, ho persino presentato alcune argomentazioni tecniche sul perché non potesse essere giusto, ma la questione è rimasta in sospeso. Si è riaperta soltanto intorno al 1994, quando ‘t Hooft e io abbiamo introdotto un elemento nuovo: il principio olografico.
Il principio olografico è l’idea secondo cui una regione del mondo (e l’informazione in essa contenuta) può essere descritta da una teoria sul confine di quella regione, un po’ come se la regione fosse un ologramma, un’immagine tridimensionale codificata su una superficie bidimensionale. Fu accolta come un’assurdità. Ricordo che un collega venne da me e disse scherzosamente: “Sai, tu e ‘t Hooft eravate bravi fisici, fisici molto rispettati. Adesso non avete tutte le rotelle a posto”. Ci furono però un paio di persone che presero il principio olografico abbastanza seriamente: Edward Witten, in particolare, lo accettò quasi subito, e anche Juan Maldacena era molto interessato. E dobbiamo proprio a Maldacena, con la scoperta della corrispondenza AdS/CFT (AntideSitter/ConformalFieldTheory), la svolta che pose fine alla questione. Egli di fatto indagò un esempio particolare del principio olografico, lo spazio anti-de Sitter, una regione infinita di spazio, che non assomiglia affatto al mondo reale, in cui le informazioni sono rappresentate come una teoria sul confine. Quando Maldacena giunse a questa conclusione, i teorici delle stringhe, che erano una porzione consistente della comunità dei fisici teorici, accolsero immediatamente il principio olografico, e ‘t Hooft e io ci trovammo improvvisamente ad avere ragione. Così è stato accettato, in parte grazie alla teoria delle stringhe, in parte grazie alla forza dell’argomento stesso, che la meccanica quantistica non può tollerare la perdita di informazione.

A Hawking, il suo avversario sconfitto, ha riconosciuto il merito di aver posto pubblicamente la domanda giusta. Ad oggi, la fisica delle particelle si trova in una sorta di impasse, con molti modelli teorici in competizione e nessun candidato abbastanza forte da primeggiare sugli altri. Ci stiamo forse ponendo le domande sbagliate?

A un certo punto, negli anni ’80, ho cominciato a sentire che avremmo raggiunto questa impasse. Lo sospettavo e mi domandavo come l’avremmo superata. La risposta che mi diedi fu: “pensando alla gravità”. Ci avrebbe aiutato a rispondere alle domande sulla fisica delle particelle? Non lo sapevo. Ma c’erano, e ci sono tuttora, domande sulla gravità e sulla meccanica quantistica davvero inesplorate. Qualcuno mi mise in guardia allora, rammentandomi che sarebbero passati milioni di anni prima di ottenere prove sperimentali nella direzione che stavo prendendo, mentre lavorando sulla fisica delle particelle, agli esperimenti al CERN, avrei ottenuto conferme in tempi ragionevoli. Proseguii per la mia strada, e guardandomi indietro, penso di aver preso la decisione giusta, di aver evitato l’impasse.

Quindi come ne usciamo? Crede che sarà ancora la teoria a guidare gli esperimenti, come è stato per il Modello Standard, o viceversa?

È difficile dirlo. Può darsi che nella prossima tornata, quando LHC sarà potenziato e raggiungerà energie più elevate, si scopra qualcosa di nuovo. Non so come potrebbe portarci ai 19 ordini di grandezza della scala di Planck dove esistono i gravitoni, o ai 17 o 16 ordini di grandezza in cui i neutrini ottengono la loro massa. Potremmo ambire a un altro fattore di 10, e magari scoprire nuove particelle. È molto difficile ipotizzare come questo possa risolvere i problemi attuali della fisica delle particelle, come possa portare a una conclusione definitiva. Ma è anche possibile che non si scopra nulla di nuovo e che il Modello Standard continui a essere altamente accurato, per quel che possiamo vedere. Se si raggiungesse questo limite sperimentale, dovremmo procedere nella direzione opposta, cercare di comprendere la fisica delle distanze più ridotte attraverso la teoria, guardare alla gravità e alla meccanica quantistica.

Un’ultima domanda, un po’ sul futuro della fisica e un po’ sulle sue doti di comunicatore: se dovesse scrivere un libro oggi che direzione prenderebbe?

In verità, sto già scrivendo un libro. C’è una serie intitolata Il minimo teorico[3], di cui sto scrivendo, con un coautore, la versione cosmologica, sulla base dei corsi che ho tenuto a Stanford. Sono libri tecnici, destinati a studenti universitari di fisica, o a chi abbia abbastanza conoscenze matematiche per poterli seguire. Ma se intende un libro destinato grande pubblico, come La guerra dei buchi neri, al momento sarebbe un’impresa troppo grande per me. Ho impiegato un anno a scrivere La guerra dei buchi neri, ho dovuto prendere un periodo di aspettativa, e adesso non voglio sottrarre tempo alla fisica, che mi entusiasma molto. Non lo escludo, mi piacerebbe in futuro, e credo che mi cimenterei in un libro sulle connessioni tra meccanica quantistica, gravità e cosmologia. Il libro che non sto scrivendo sarebbe sulla cosmologia del futuro, che è diversa da quella standard, e su come la gravità e la meccanica quantistica si integrano e influenzano la cosmologia.

 

[1] Il paesaggio cosmico. Dalla teoria delle stringhe al megaverso è il primo libro di divulgazione scientifica di Susskind, pubblicato nel 2005.

[2]  La guerra dei buchi neri: la mia battaglia con Stephen Hawking per rendere il mondo sicuro per la meccanica quantistica è il secondo libro di divulgazione scientifica di Susskind, pubblicato nel 2008.

[3] Susskind è stato coautore di una serie di libri che accompagnano il suo ciclo di lezioni Il minimo teorico, pubblicati tra il 2013 e il 2023.

 


BIO

Considerato uno dei padri della teoria delle stringhe, Leonard Susskind è stato il primo a dare un’interpretazione precisa del principio olografico e a introdurre l’idea del paesaggio della teoria delle stringhe. È professore di fisica teorica all’Università di Stanford, fondatore dello Stanford Institute for Theoretical Physics, e membro di diverse accademie, tra cui la statunitense National Academy of Sciences. È stato insignito del Premio J. J. Sakurai nel 1998, della Medaglia Oskar Klein nel 2018, della Medaglia Dirac dell’ICTP nel 2023 e della Medaglia Galileo Galilei dell’INFN nel 2025.

Leonard Susskind © Stanford University / LiPo Ching Leonard Susskind © Stanford University / LiPo Ching

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